Giacomo Matteotti e don Luigi Sturzo
di Paolo Giaretta
La Cisl di Padova e Rovigo ha organizzato a Fratta Polesine un convegno per ricordare la figura di Giacomo Matteotti nel suo comune natale, nel centenario del suo assassinio. Ho partecipato ad una tavola rotonda con Riccardo Nencini, studioso della figura di Matteotti e Gianfranco Refosco, segretario regionale della Cisl. A me è stato chiesto di analizzare i possibili contatti tra Matteotti e Sturzo, qui di seguito il mio intervento.
Sono naturalmente due personalità con storie e caratteri diversi. A partire dall’anagrafe: Giacomo Matteotti è un polesano, di una famiglia benestante, nato nel 1885, socialista e anticlericale, compagno di liceo di Umberto Merlin, tra gli 11 firmatari dell’Appello ai Liberi e Forti di don Luigi Sturzo, avvocato della madre di Matteotti, nell’Italia repubblicana Merlin fu eletto alla Assemblea costituente e successivamente divenne Ministro. Sono gli intrecci in un territorio che ha dato molto alla politica nazionale.
Luigi Sturzo è più anziano, è del 1871, è un prete siciliano di Caltagirone. Personalità diverse per storia e formazione. Matteotti si avvicina all’impegno politico mosso dalle tragiche condizioni di povertà ed emarginazione sociale delle genti polesane, e vi si dedica con passione e radicalità. Sturzo studia da prete, si alimenta del pensiero sociale della Chiesa. Sviluppa una sensibilità ed un impegno a partire dallo studio delle condizioni egualmente disagiate dei braccianti siciliani. Come ha scritto lo storico Gabriele De Rosa “Pochi ebbero, come Sturzo, la conoscenza specifica della struttura agraria e artigianale siciliana e la sua capacità di analisi degli effetti negativi del processo di espansione del capitalismo industriale sui fragili mercati del Sud e sulla piccola e media borghesia agricola e artigiana locale, che si sfaldava sotto i colpi di una impossibile concorrenza. Tra le cause della disgregazione dei vari ceti artigianali in Sicilia, Sturzo indicava la forte concorrenza delle grandi fabbriche estere o nazionali di materie prime; la lotta rovinosa che si facevano gli artigiani locali, la mancanza di capitali, l’indebitamento, l’impoverimento delle campagne dovuto alla crisi agraria“.
Alla ricerca di un nuovo umanesimo
Personalità diverse, eppure tutti e due si trovano ad affrontare un problema complesso che riguardava la definizione di una proposta politica adeguata ai tempi nuovi che impetuosamente avanzavano.
Sturzo ha un pensiero chiarissimo: i tempi sono maturi per un pieno rientro dei cattolici nella vita politica della nazione, ma vi devono entrare come portatori di un nuovo umanesimo, che nasce dalle elaborazioni culturali che erano andate maturando di fronte all’asprezza della questione sociale, che era ben presente per la lunga preparazione che si era sviluppata attraverso i presidi sociali delle parrocchie, l’organizzazione di leghe contadine ed operaie in concorrenza con quelle rosse, l’opera pastorale dovuta alla spiccata sensibilità sociale di tanti parroci. D’altra parte la pubblicazione della grande enciclica sociale Rerum Novarum aveva incoraggiato i cattolici a misurarsi con i tempi nuovi, con un linguaggio inusitato per i paludati documenti pontifici. Si legge nella Rerum Novarum :“…avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli ed indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male una usura divoratrice …a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco meno che servile”.
La Rerum Novarum è del 1891. Al di là delle soluzioni prospettate che stanno ancora dentro un pensiero tutto ottocentesco è la radicalità dell’analisi della condizione operaia e contadina che invitava i cattolici più avvertiti a scendere in campo con visioni nuove e coraggiose. Nel discorso di Caltagirone che Sturzo tenne alla vigilia di Natale del 1905, intitolato «I problemi della vita nazionale dei cattolici» egli propose per la prima volta la costituzione di un partito di ispirazione cristiana per portare i cattolici all’interno della vita politica italiana. L’impostazione è chiarissima. Afferma infatti Sturzo: “Ora io stimo che sia giunto il momento che i cattolici staccandosi dalle forme di una concezione pura clericale […] si mettano al paro degli altri partiti nella vita nazionale, non come unici depositari della religione o come armata permanente delle autorità religiose che scendono in guerra guerreggiata ma come rappresentanti di una tendenza popolare nazionale, nello sviluppo del vivere civile […] così cattolici o socialisti, liberali o anarchici, moderati o progressisti”.
E per Sturzo doveva essere chiara la scelta di campo, non servivano equivoci raggruppamenti in nome di una astratta unità dei cattolici: “O sinceramente conservatori o sinceramente democratici; una condizione ibrida toglie consistenza di partito e confonde la personalità nostra con quella dei conservatori liberali…A me democratico autentico è inutile chiedere quali delle due tendenze politiche nel senso comune della parola io credo che risponda meglio a quegli ideali della rigenerazione della società in Cristo che è l’aspirazione ultima di tutto il nostro precorrere, agire, lottare. È chiaro che io stimo monca, inopportuna, che contrasta ai fatti, che rimorchia la Chiesa al carro dei liberali, la posizione di un partito cattolico conservatore e che io credo necessario un contenuto democratico del programma dei cattolici nella formazione di un partito nazionale”.
Ci sarebbero voluti 14 anni di dura lotta politica e culturale per fare accettare anche dalla Chiesa la prospettiva sturziana, ma l’ostinazione di Sturzo ebbe ragione delle resistenze passatiste.
Un pensiero riformista
Giacomo Matteotti matura nella spesso solitaria riflessione politica strade nuove. Odiato dai proprietari che lo considerano un traditore di classe, convinto che i socialisti facciano un grave errore con la svolta massimalista del biennio rosso, non comprendendo essi appieno il pericolo fascista, fieramente avverso alle ricette bolsceviche, vive in un partito che subisce una doppia scissione, quella di Livorno con la nascita del Partito comunista e quella dell’ottobre del 1922 (pochi giorni prima della marcia su Roma, a dimostrazione dell’incomprensione assoluta di cosa stesse succedendo da parte dei socialisti massimalisti!) in cui i riformisti vengono espulsi dal partito e debbono con Turati formare il nuovo Partito socialista unitario di cui diventa segretario.
Scrive Matteotti nella primavera del 1923 nel documento Direttive del Partito socialista unitario “Siamo quindi anche per la lotta di classe, ma non per la guerra di classe. Lotta di classe, cioè difesa del lavoro sul terreno economico, per la ascensione continua della forza e della capacità dei lavoratori, che devono tutelare i loro salari e limitare sempre più il parassitismo capitalista. Lotta di classe cioè difesa del lavoro sul terreno politico per rivendicare ai lavoratori che sono la grandissima maggioranza il diritto di influire e governare anche la cosa pubblica. Lotta di classe non per distruggere in una eterna contesa le fonti della produzione ma per aumentare la produzione regolandola nell’interesse della collettività operosa e non di una oligarchia sfruttatrice dei lavoratori e dei consumatori. Lotta di classe non per emancipare una classe e opprimerne un’altra, ma perché tutti i previlegi di classe siano aboliti e tutti i cittadini siano eguali di fronte all’obbligo di cooperare alla produzione della ricchezza e al maggior benessere economico. Lotta di classe non per mantenere l’odio del pezzente contro chi è ben vestito ma per suscitare in ognuno la dignità dell’uomo e l’aspirazione o la capacità di elevarsi non contro i propri simili ma nella coordinata armonia di tutti per la comune ascensione, Lotta di classe non per raggiungere una impossibile eguaglianza meccanica di tutti gli uomini ma per dare ad ogni nato da donna la possibilità massima di sviluppare le sue capacità e attitudini al lavoro a vantaggio della collettività”.
Al di là del lessico proprio del mondo socialista alla fine molti sono i punti di contatto con ciò che scriveva Sturzo nell’Appello ai liberi e forti (anch’esso prigioniero di alcuni stilemi propri della visione sociale cattolica di quel tempo). E del resto nel documento di Matteotti sono introdotti concetti nuovi (la cooperazione tra gli interessi economici, la soggettività del consumatore, l’eguaglianza delle condizioni di partenza, il collegamento tra tutela del salario e capacità produttiva, l’uso della leva istituzionale per migliorare la condizione operaria) che saranno alla base del grande progetto riformatore nella seconda metà del 900 imperniato sulla realizzazione di un sistema di welfare e dello scambio virtuoso capitale/lavoro. E, vorrei dire, tanti di questi temi sarebbero stati sviluppati con originalità propria nell’esperienza cislina.
Matteotti e Sturzo, una cultura autonomista
Ci sono altri punti di contatto. Sturzo e Matteotti sono due convinti autonomisti. Per loro la politica trova forza e legittimazione nelle esperienze amministrative locali. Per Sturzo è un passaggio anche obbligato. Il Non expedit vaticano ancora in vigore non consente ai cattolici un impegno diretto nella politica nazionale ma lascia aperta la strada all’impegno nelle istituzioni locali. E lì matura la capacità politica ed organizzativa di Luigi Sturzo all’inizio del secolo: vicesindaco di Caltagirone, vicepresidente dell’Unione Comuni Italiani. E il Partito Popolare Italiano nasce nel 1919 con una forte impronta autonomista.
Egualmente Giacomo Matteotti sviluppa la sua iniziativa politica a partire dalle autonomie locali, portando i socialisti a impegnarsi nel buon governo locale. Amministratore locale lui stesso e Sindaco scrive un manuale per la formazione degli amministratori “Il Comune socialista, manuale per gli amministratori degli enti locali” in cui raccomanda: “Molti dei nostri compagni hanno un sacro terrore delle parole Patrimonio, Bilancio, Conto residui, imposte, ecc. Sembra loro che siano cose difficilissime o inutili, da abbandonarsi agli impiegati comunali o governativi, i quali poi profittano per addurle come argomenti misteriosi contro le attività socialiste. I lavoratori devono impadronirsi di questa materia, così come essi conoscono l’uso del martello, dell’aratro o l’uso di una macchina nelle officine. Il Bilancio, i Conti, le Imposte sono appunto gli strumenti del mestiere dell’Amministratore pubblico che il socialismo vuole sottratto ai capitalisti per darlo ai lavoratori”.
Internazionalisti ed europei
Sturzo e Matteotti sono convinti europeisti, nella carta fondativa del Partito Popolare, l’Appello ai Liberi e Forti “A tutti gli uomini moralmente liberi e socialmente evoluti, a quanti nell’amore alla patria sanno congiungere il giusto senso dei diritti e degl’interessi nazionali con un sano internazionalismo, a quanti apprezzano e rispettano le virtù morali del nostro popolo, a nome del Partito Popolare Italiano facciamo appello e domandiamo l’adesione al nostro Programma”. E negli anni dell’esilio Sturzo mantenne sempre alta una visione internazionalista, contro le dittature che si estendevano in Europa.
Matteotti era stato neutralista differenziandosi dagli entusiasmi anche in campo socialista per l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 e molto fu preoccupato dell’impostazione punitiva verso la Germania con gli accordi dei paesi vincitori nella Prima Guerra Mondiale, intravedeva già le conseguenze nefaste che avrebbero portato al nazismo, esplicitamente parla della necessità di aprire una nuova strada: “favorire ogni iniziativa che dirima i conflitti tra i popoli, li associ con vincoli pacifici, faccia cessare le opposte violenze e minacce, favorire il formarsi di una vera Lega delle Nazioni, o più immediatamente degli Stati Uniti d’Europa”. Del resto tutti e due si nutrono di una cultura europea. Matteotti è poliglotta, soggiorna in Inghilterra, in Germania, ha relazioni importanti con esponenti della cultura europea, Sturzo negli anni dell’esilio a Londra e poi negli Stati Uniti intrattiene relazioni importanti a livello internazionale. Interessante ha la ricchissima corrispondenza che ha con sacerdoti spagnoli, nel periodo drammatico e sanguinario della guerra civile, stretti tra la repressione franchista e il suo clericofascismo e le persecuzioni anarcoidi e anticlericali altrettanto sanguinarie di frange della sinistra.
Sconfitti ma vincenti
Infine sia Sturzo che Matteotti politicamente sono sconfitti. Nonostante le elezioni del 1919 avessero visto una importante affermazione dei socialisti che elessero 156 parlamentari con il 32,28% dei suffragi e l’imprevisto exploit del Partito popolare appena costituito che mandò in Parlamento 100 deputati, raggiungendo il 20,53%. Ma prevalse tra le file socialiste il massimalismo, si avviò il biennio rosso con agitazioni contadine ed operaie, scontri fisici con le forze dell’ordine e tra le diverse fazioni, scontri anche tra socialisti e popolari, impedendo i comizi, bastonature, l’occupazione delle fabbriche: l’illusione che la rivoluzione fosse possibile e vicina. Successe il contrario, si avviò una reazione che avrebbe portato alla dittatura fascista. Sia Matteotti che Sturzo avevano ben presente i rischi di questa situazione, lavorarono perché fosse possibile un governo di salute pubblica che vedesse insieme socialisti e popolari. Ci sono testimonianze di incontri a casa di Vittorio Emanuele Orlando con Turati, Matteotti e Sturzo, Non ci fu la comprensione dei vecchi notabili liberali che non avvertirono la gravità di ciò che stava formandosi.
La sconfitta politica ha un esito tragico per Giacomo Matteotti. Affida le sue ultime vigorose battaglie all’Aula parlamentare. Certamente non avrebbe condiviso la scelta aventiniana. Nel suo ultimo discorso del 30 maggio 1924 denuncia, continuamente interrotto dalla gazzarra fascista, i brogli, le irregolarità, le violenze che hanno caratterizzato la contesa elettorale. E’ ben consapevole dei rischi che corre. Aveva annunciato un altro discorso in cui avrebbe svelato le malversazioni dei fascisti con speculazioni sulle concessioni petrolifere. Aveva raccolto una documentazione a Londra. Finito il discorso dice ai vicini di banco: “Adesso potete preparare il mio discorso funebre”. Difatti il 10 giugno viene rapito e assassinato. Ci fu uno sbandamento nel fascismo. Le opposizioni non seppero cogliere l’occasione. Del resto lo stesso Gramsci, che avrebbe pure lui conosciuto le violenze della dittatura, definì Matteotti pochi giorni dopo la sua sepoltura un pellegrino del nulla che si era speso “in un inutile circolo vizioso di lotte, agitazioni, di sacrifici senza risultato e senza vie d’uscita”. Gli da la patente di uno sconfitto, ma gli errori di valutazione più gravi li fecero i comunisti bolscevichi che pensavano fosse matura la situazione rivoluzionaria: volevano la rivoluzione, ebbero una reazione che avrebbe ucciso la democrazia.
Sturzo dopo la breve esperienza del PPI è costretto ad espatriare. La Chiesa cattolica vuole comporre la questione romana ed arrivare ad un accordo con lo Stato. Questo prete scomodo è visto come un ostacolo. Del resto anche nei confronti di Sturzo non mancano le ingiurie e le minacce della teppaglia fascista verso il “prete nefasto”. Il giornale L’Impero scrive: “Dopo Matteotti toccherà a Sturzo”. Del resto nel 1923 ad Argenta era stato assassinato dai fascisti a bastonate Don Giovanni Minzoni, colpevole di aver condannato l’assassinio del sindacalista socialista Natale Galba e di rifiutare ogni collaborazione col fascismo. Il 25 ottobre del 1924 Sturzo va in esilio a Londra. Come estremo gesto di protesta non chiede il passaporto alle autorità italiane, utilizza un passaporto vaticano.
Di lì scrive nel 1926 una commovente lettera agli amici restati in Italia: “coloro che cercano ancora dei punti di contatto sul terreno politico e parlamentare con il fascismo fanno opera vana e negano di fatto i principi di libertà su cui è nato e solo può vivere il popolarismo. Se ancora vi sono è bene che il partito li lasci cadere, foglie secche di un albero ancora verde, che passa il suo inverno per preparare i succhi vitali della sua primavera…Nessuno sciupio di forze, nessuna mossa discutibile, nessun gesto inutile: il raccoglimento, lo studio, la preparazione. Essere innanzitutto sé stessi. Cioè rigidi assertori di libertà, aperti negatori del regime fascista, vigili scolte di moralità pubblica…L’esempio dei giorni aspri del primo Risorgimento deve farci convinti che nessuna forza armata o potere di principi e dittatori valgono a contenere la diffusione delle idee e a impedire che si affermino quando esse sono mature”.
Giacomo Matteotti poco prima del suo assassinio il 19 marzo del 1924 scrive una sconfortata lettera al vecchio leader Filippo Turati: “Il partito muore d’inazione. Le vostre delibere, la tattica di fare il morto deliberato dalla direzione finisce di uccidere un partito che fin dal suo nascere non aveva potuto farsi conoscere abbastanza per gli avvenimenti. Nessuno sa né chi siamo né cosa vogliamo. Erano tutti leoni del buon tempo andato, ora sono tutti presi dalla gotta. Quando si occupano di qualche cosa si occupano delle preferenze e nulla più”.
Sturzo e Matteotti sono stati tra i non molti che per tempo avevano capito la natura del movimento fascista e i pericoli che rappresentava per la democrazia. Quando anche altri lo capirono era ormai troppo tardi. Superata la crisi seguita all’assassinio di Matteotti, allontanato don Sturzo, nasce anche formalmente la dittatura, con l’approvazione tra il 1925 e il 1926 delle leggi fascistissime.
Due sconfitti, ma due sconfitti a cui la Storia ha dato ragione.