Guido Gonella nel ricordo di Luciano Lincetto

Era un uomo e un cristiano straordinario Guido Gonella, nato a Verona il 18 settembre 1905 e morto a Nettuno, in provincia di Roma, il 19 agosto 1982. È stato giornalista e politico italiano, ministro della Re- pubblica e primo presidente dell’Ordine dei giornali- sti istituito nel dopoguerra.

Laureato in filosofia, insegnò filosofia del diritto nelle Università di Bari e Pavia. Nel 1928 fu direttore della rivista «Azione fucina» della Federazione Universitaria Cattolica Italiana (Fuci).

Negli anni Trenta collaborò con «L’Osservatore Ro- mano» per il quale monsignor Montini, il futuro papa Paolo VI, gli affidò la rubrica Acta diurna, che divenne negli anni dei totalitarismi una vera e propria centrale di notizie da ogni parte del mondo.

Guido Gonella pubblicherà negli anni seguenti l’esegesi dei messaggi pontifici raccolti nei Presupposti di un ordine internazionale (1943) e nei Princìpi di un ordine sociale (1944), e collaborerà al Codice di Camaldoli (1943). Questi tre documenti furono fondamentali per la preparazione alla mia vita politica, con accanto come maestri, oltre Dossetti, un nipote di Toniolo e monsignor Tondelli, fautore di studi biblici nella diffi- cile e complessa epoca del modernismo.

Poco prima dell’invasione della Polonia, Gonella era stato arrestato perché i suoi Acta diurna, con una loro valutazione degli avvenimenti internazionali, avevano irritato i gerarchi fascisti.

Rilasciato dopo pochi giorni, grazie all’intervento della Santa Sede, venne sottoposto a sorveglianza spe- ciale e fu comunque costretto a lasciare l’insegnamento. Durante gli anni della guerra uscì il suo volume- raccolta di lezioni di filosofia del diritto tenute nelle Università di Pavia e di Bari, da dove era stato licen- ziato nel 1939 per ordine politico per il fatto che, di fronte alla violazione del diritto internazionale e alla negazione del primariato morale sull’obbligazione

giuridica, Gonella indicava un ordine democratico.

Nell’ottobre 1943 De Gasperi affidò a Guido Gonella la direzione clandestina de «Il Popolo», affidandogli il compito di valutare lo studio di un ponte fra i vecchi dirigenti del Partito Popolare, la cultura delle nuove generazioni formate dalla Fuci e il Movimento neoguelfo lombardo. Con questo foglio le idee della lunga vigilia venivano diffuse innervando l’embrione della futura Democrazia Cristiana.

Sempre a Gonella, De Gasperi affidò la relazione sulle garanzie democratiche (Discorso sulle 27 libertà) al primo congresso del partito (Roma, aprile 1946) ed espresse i princìpi cristiani che dovevano informare la Carta costituzionale nel dibattito con le imposta- zioni laiche democratiche.

Nel secondo governo De Gasperi era stato nominato ministro della Pubblica Istruzione dove rimase fino alla caduta del quarto gabinetto nel luglio 1951. Scelse per una riforma scolastica il metodo dell’inchiesta nazionale, ma questo sforzo di indubbio valore naufragò in un mare di carte (per un triennio vissi quell’esperienza come membro della segreteria della riforma a palazzo Vidoni). Gonella fu sacrificato al governo mentre il suo interesse culturale avrebbe potuto assicurare alla Costituente contributi di un certo interesse. Durante il periodo del suo ministero partecipò a Roma al primo congresso dell’Aimc. Poco prima era venuto a Reggio, su mio invito, quale presidente per inaugurare la risorta Associazione magistrale «Tommaseo» e la sua sede.

Nell’aprile del 1950 venne eletto segretario politico

della Democrazia Cristiana con il recupero di Dossetti alla vicesegreteria. Rimase al governo ancora un anno senza riuscire a superare il traguardo della riforma della scuola e senza impedire il ritiro di Dossetti dalla vita politica. Affrontò il quarto congresso del partito (Roma 1952) con un discorso sulle «malattie della libertà», ma la caduta della legge elettorale con premio di maggioranza (giugno 1953) diede inizio al declino politico di Gonella. Rientrò nel governo con Segni (lu- glio 1955) per la riforma amministrativa, e fu presente al congresso socialista di Torino.

Gonella intuì che la strada dell’autonomia del Partito Socialista Italiano era stata imboccata, così l’anno seguente capeggiò in Parlamento la «concentrazione» in contrasto con la corrente maggioritaria della Democrazia Cristiana, che era Iniziativa democratica, per far eleggere Gronchi al Quirinale come inco- raggiamento all’autonomia socialista. Al congresso di Trento (ottobre 1956) Gonella pose il tema dell’a- pertura, ma interpretando il pensiero di De Gasperi definì il centro come già centro-sinistra senza bisogno di presenza esterne.

Il socialismo, disse, indurisce le arterie della demo- crazia. Alla sinistra democristiana le attese furono fru- strate e Gonella uscì dal congresso come un notabile scomodo e superato. Farà parte di altri governi e il suo pensiero continuò a manifestarsi nella rivista «Società Nuova» entro una visione europeistica.

Pochi giorni dopo il ritrovamento del corpo del «ca- rissimo» Aldo Moro, usciva alle stampe il suo libro, Luci e ombre delle esperienze costituenti, in cui Gonella ritornava al riesame dell’architettura dello Stato guar- dando in faccia errori e lacune e accusando la parti- tocrazia e la visione pansindacalista per i terribili, irreparabili danni arrecati alla struttura dello Stato. Quello fu il suo testamento politico. Morì il 19 agosto 1982 alla soglia dei 77 anni.

Gonella condivise con De Gasperi l’idea di un «partito d’opinione» – i partiti troppo organizzati costano, diceva il presidente – ma dovette farsi da parte quando prevalse una concezione meno rigorosa, forse resa necessaria dalle circostanze.

Gonella aveva questa caratteristica lungimirante: vedeva «prima» le cose, interpretava i fenomeni socio-politici in anticipo rispetto agli altri. Aveva un fiuto formidabile e infallibile. E una specie di antenna radar che gli faceva intercettare il senso profondo degli eventi, concedendogli un vantaggio su tutti gli altri. Sarà così anche con il tema, delicatissimo, della giustizia e le involuzioni nei rapporti con il mondo politico.

Come potete capire, Gonella resta di una attualità sconcertante. A personaggi come lui si adatta benissi- mo l’aforisma: «Siamo talmente avanti che, quando ci voltiamo indietro, noi vediamo il futuro».

Insomma a Gonella non piacque mai la Democrazia Cristiana divisa in correnti e la Democrazia Cristiana dorotea. Potremmo dire che Guido fu un precursore avveduto e intelligente del dibattito sul «partito leggero o pesante», che è andato di moda verso l’inizio degli anni Novanta.

Resta come documento illuminante la relazione-base che Gonella tenne al congresso nazionale dell’aprile 1946, alla vigilia del referendum istituzionale.

Ne rileggo qui testualmente un passaggio che defi- nirei illuminante: “Per noi il partito non è una società per catturare il gregge popolare, per tosare le pecore e venderne la lana al mercato. Il partito è una milizia ideale, è una coalizione di uomini che intendono affermare l’integralismo della loro fede. Ogni apostolato – e la Democrazia Cristiana prima di essere un partito è un apostolato sociale – esige una confessione. Vogliamo qui confessare il nostro credo per avere l’ardore sufficiente per combattere in nome di tale credo, che è il credo dell’avvenire.

Il suo articolato e appassionato inno alla libertà e al primato della morale anche nella vita pubblica, suscitò grande entusiasmo nei presenti ed ebbe una profonda eco nella nazione. Su questa base i cattolici democratici entrarono a pieno titolo nell’Assemblea Costituente. Come non essere d’accordo con lui: la morale, l’etica non sono un orpello per l’attività politica.

Oggi si è consolidata la convinzione che la morale sia una zavorra per chi faccia politica. Errore gravissimo! Si confonde la morale con il falso moralismo! C’è una differenza abissale. Altro esempio: la moderazione sta al moderatismo, come la castità sta all’impotenza. Chiaro? Certo, si è sempre cercato di fare politica senza la morale, ma non è detto che sia venuta meglio. Di lui mi ricordo una frase profetica che mi disse.

Eravamo ad un consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, mi pare fosse del ’79. Ci trovavamo al Palazzo Don Sturzo, all’Eur di Roma. Mi guardò, mi prese per un braccio camminando lentamente e mi disse:

«Luciano… questo è un partito in liquidazione… ce l’hanno letteralmente rubato… non è più la Dc che ab- biamo voluto, con Alcide, Aldo… non era così, questo partito… Luciano caro, siamo finiti: perché quando in una forza politica popolare come la nostra fanno car- riera solo i portaborse e i lacchè, e non le vere espres- sioni del popolo, della gente, allora vuol dire che non c’è più niente da fare… ». Si ferma. Mi guarda negli occhi: «Gli dò dieci anni, non più di dieci anni di vita… ».

Sbagliò di poco. Veramente di poco. Praticamente aveva previsto tutto.

Guido Gonella fu ministro del primo governo re- pubblicano. Benedetto Croce aveva dichiarato che, lui vivente, non avrebbe accettato la vergogna di vedere un cattolico al ministero della Pubblica Istruzione. Era una strana sfida – che oggi potremmo definire «ottu- samente laicista» – che certamente la Democrazia Cri- stiana non poteva subire. Gonella andò a reggere il dicastero di Viale del Re – ribattezzato Viale dei La- voratori – e Benedetto Croce corresse dopo non molto

il suo tiro, avendo rapporti molto cordiali con l’uomo di cultura Gonella, che svolse un ottimo lavoro mi- nisteriale adoperandosi per giuste riforme, ma senza l’ansia di affidare alla storia una «sua» riforma.

Ma dove ancor più emersero le sue qualità fu al mi- nistero della Giustizia in cui fu otto volte, tra il 1957 e il 1973. A Via Arenula, dove si trovano di solito i ministri per la colazione, comprese subito la duplice missione, tecnico-giuridica e umana, del guardasigilli. Ne parlai con lui più volte. Aveva pensato a un programma di riforma del pianeta giustizia in nove punti, sui quali nessuno può pensare che si nascondessero propositi o preoccupazioni personalizzate (ad personam, si usa dire oggi).

Guido scriveva:

Riforma della legge sul Consiglio superiore che non può continuare ad avere attribuzioni non previste dal- la Costituzione, la quale all’art. 105 stabilisce che le attribuzioni del Consiglio superiore sono «secondo le norme dell’ordinamento giudiziario».

È questo che va riformato, e la riforma è responsa- bilità del Parlamento poiché «i giudici sono soggetti soltanto alla legge» (art. 101 della Costituzione). Però alla legge sono soggetti e questo è il limite dell’indi- pendenza della magistratura.

Urge ristabilire i poteri del Ministero della Giustizia secondo l’art. 110 della Costituzione, il quale prevede che «spetta al Ministero della Giustizia l’organizzazio- ne e il funzionamento dei servizi relativi alla Giusti- zia». Bisogna ristabilire la gerarchia delle funzioni ed il controllo del magistrato superiore su quello inferiore (l’art. 107 della Costituzione parla di «diversità di fun- zioni»). La carriera deve essere basata su una selezione

qualitativa, e non su ruoli aperti. Non può essere consi- derato sullo stesso piano il magistrato capace con quel- lo incompetente o negligente. Fissare le responsabilità del magistrato in materia di errori giudiziari, poiché la Costituzione prevede (art. 24) che gli errori giudiziari devono essere riparati. Divieto di sciopero, trattandosi di un pubblico servizio. Divieto di iscrizione ai partiti, secondo quanto prescrive l’art. 98 della Costituzione («si possono con legge stabilire limitazioni al diritto di iscriversi ai partiti politici per i magistrati»). Tutte le precedenti proposte di riforma globale dei Codici sono fallite. Conviene ripresentarle, chiedendo deleghe altrimenti nulla si concluderà mai.

Una modifica delle norme sul peculato è urgente poiché le attuali norme e iniziative discordi della magistratura paralizzano la vita delle amministrazioni. L’errore amministrativo non può essere considerato un peculato, cioè un crimine penalmente perseguibile.

Il suo cruccio più grande, un vero rovello interiore, era la lentezza delle procedure. Uno scritto del giugno 1973 si intitolava: Se arriva tardi non è giustizia. Ma l’aspetto dominante era quello umano. Presiedette per nove anni il Centro nazionale di prevenzione e pena. L’autorevole magistrato Adolfo Beria d’Argentine, segretario generale del centro, sottolineò con molto calore la sua tensione e la fiducia nella persona umana.

Gonella si occupò a fondo del sistema penitenziario e dell’innaturale affollamento delle prigioni: problema irrisolto e anzi, oggi, aggravato.

Visitava le patrie galere. A Porto Azzurro va nel carcere e parla con i più celebri ergastolani, cioè Fe- naroli, Mesina, Lucchi… Li visita a uno a uno nelle loro celle, prendendo appunti dei loro desideri e poi

cerca di soddisfarne le istanze nei limiti del possibile (trasferimenti, ecc.).

Ho trovato la lettera che il direttore di Porto Azzurro gli spedì, il giorno 12 luglio 1973:

Signor ministro, il ricordo della visita di V. E. in questi Istituti penitenziari rimarrà imperituro nella mente e nell’animo di tutti noi operatori penitenziari e dei detenuti. I provvedimenti di clemenza che hanno fatto seguito alla visita e le altre proposte di grazia hanno suscitato nell’Istituto tanto entusiasmo e tanta riconoscenza per V. E.

Inoltre le numerose lettere che tramite monsignor Signorato V. E. ha benignato di inviarci, hanno stupito e commosso noi tutti, sia perché giunte inaspettate, sia perché nessuno poteva pensare che V. E. potesse dedicare tanto tempo per rispondere a tutti, sia perché ha dimostrato di ricordare e di prendere a cuore ogni singolo caso.

V. E. ha ribadito, dimostrandolo, specialmente a noi modesti operatori penitenziari, come l’umanità e l’amore, cristianamente inteso, nei confronti del no- stro prossimo, siano le principali componenti di un vero rapporto educativo.

I detenuti di Porto Azzurro, gli agenti, i funzionari ed io porgiamo a V. E. un grazie che viene dal profondo del cuore.

Con deferenti ossequi.

Guido fu esemplare anche come scelta e come vita familiare. Nell’anniversario della morte della moglie Pia, il 30 maggio 1976, con una sua lettera aperta ai cinque figli, pubblicò le bellissime Note religiose, scritte appunto dalla moglie. A proposito, fu lui il vero artefice della revisione del Concordato Stato-Chiesa, che però non vedrà compiuto e ratificato, cosa che avverrà solo con il governo Craxi.

Ma leggiamo ancora un passaggio delle Note religiose inviate a Guido:

Quest’anno (1957) a Natale, abbiamo assistito alla messa di mezzanotte nel carcere delle Mantellate. È stato un desiderio di mio marito che, come ministro della Giustizia, ha voluto trovarsi, in quel momento, vicino a coloro che della giustizia conoscono i rigori. Alle Mantellate c’è una bella chiesa, e la messa di mezzanotte mi è sembrata più solenne e più commovente del solito. Ho provato un senso di profonda pietà per le carcerate (chi sa perché, quando si parla dei detenuti, si pensa sempre agli uomini, non alle donne), e mi è tornato di colpo alla mente il ricordo dei giorni in cui correvo da un ufficio di polizia all’altro per scoprire il luogo in cui avevano imprigionato mio marito. Era il settembre del 1939 e gli anni duri, per me, incominciarono allora.

Guido ed io non pretendiamo di essere martiri o eroi. Mio marito è soltanto un uomo che è rimasto fedele al suo ideale politico affrontando, per esso, i rischi che le circostanze gli imponevano. Io sono una donna di casa, una madre di famiglia: ho cinque figli che cerco di allevare nel miglior modo possibile. E cerco di stare il più possibile vicina a mio marito.

Monsignor Montini, che aveva celebrato le nozze, indicava la famiglia Gonella come esemplare. Giovanni Paolo II nel messaggio di condoglianze inviato ai figli di Guido scrisse:

«Fu sincero figlio della Chiesa, illustre statista, au- torevole studioso e docente di diritto e dell’insegna- mento sociale cristiano. Amo particolarmente ricor- darne la fede schietta ed integerrima».

A proposito dei figli… mi viene in mente che Guido non fece come fanno abitualmente i suoi epigoni, e senza vergogna: trovare cioè un buon posto, anche se spesso non valgono niente e non sanno fare nulla, saltando altri giovani più meritevoli, ma che purtroppo per loro non sono «figli di… ».

Con pudore accenno alla vicenda del figlio maschio di Guido, che si fece religioso di Charles de Foucauld. Una scelta difficile, certo lacerante per la famiglia. Il giovane Gonella sa bene a cosa va incontro, quando accetta la Regola monastica dei Piccoli Fratelli. La chiamata riveste una sua precisa definitività: spartiacque con la vita di prima. Non certo come avviene oggi in alcune sette, demoniache macchine mangiasoldi, che allo scopo fanno rompere con la famiglia di origine solo per isolare e subornare l’adepto e disporne a piacimento. No, con i Piccoli Fratelli non va certo così: ma per dieci anni i voti pronunciati non permettono di lasciare la comunità, per niente al mondo. Così il dramma della mamma che si spegne non vede il ritorno del figlio. Va meglio al papà, che amava molto quel figlio così sensibile e devoto.

Questo era il mio caro amico Guido Gonella. Uno

per cui i valori non si possono adottare «a ore», in modo intermittente, quando conviene a noi. Ma vanno vissuti 24 ore su 24, integralmente, senza se e senza ma. E mai in maniera strumentale. E il potere è sempre un mezzo per raggiungere obiettivi alti, nobili, moralmente edificanti, rispettosi della persona, che deve restare sempre al centro dell’orizzonte politico.

Come lo voglio ricordare, cari lettori? Con una sua

significativa frase-manifesto:

«Ricordati una cosa, Luciano: se vuoi essere un uomo libero, non accettare mai compensi che non ti sono do- vuti legittimamente per un lavoro che hai fatto».

Una regola aurea, di cui sarò sempre grato a Guido.

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